domenica 30 settembre 2012

Nessun verbo



Erano passate da poco le nove della sera, quando Anna e Stefano uscirono appagati dalla XII mostra internazionale d'arte moderna di York. 
Mano nella mano, i due ragazzi non profferirono verbo, rimasero sospesi per circa 10 minuti. Frottavano impalpabili, immersi, ciascuno, nelle impreviste tonalità delle opere contemplate:  pulsavano ancora, libere nella mente, come un piacere condiviso.  
Il cielo, stranito, fissava i due giovani quasi invidioso dei baci d'allegrezza ispirati e delle promesse scambiate con un soffio tra cuori.
Sembravano danzare per il piazzale, entrambi incuranti degli sguardi assenti e delle nubi minacciose. 
Le inattese impressioni di novembre.
Era lui ed era lei, il resto eventuale e molto, molto vario.
Sette gocce si precipitarono a ticchettare le scarpette blu di Anna, ma pian piano il cielo ne versò più e più a destare la loro attenzione, a suonare i nugoli bassi, a spaventarli.
Stefano, allora, sentì Orgoglio bollire in petto e, grato dell'occasione concessagli, ne approfittò immediatamente: si sfilò, rapido, la giacca di jeans e, come un mago con il mantello, fece ruotare in alto il suo giubbino. Anna fu colta di sorpresa, prese fiato, tirò su gli occhi senza espirare, e si affidò a lui. 
In un lampo schioccò l'incantesimo: la giacca era svanita, le spalle di Anna tratte in salvo e il braccio di Stefano cingeva il collo della sua bella. 

I passi chiamarono altri passi più veloci, ma senza paura; in fondo quei dardi di cielo si nutrivano d'acqua e portavano germogli di Anna nella fantasia di Stefano.
Quando giunsero alla pensilina, Anna sedette sulle gambe zuppe del ragazzo, poi si voltò verso di lui e sprofondò nei suoi occhi dalle ciglia lunghissime. 
Un silenzio giacque sorridente e, nel chiaroscuro di quella notte, la pioggia, complice degli innamorati, disegnò un lago sotto la luna.  

Il bus delle 21.27, arrivò con qualche minuto d'anticipo; i ragazzi intravidero in lontananza 2 lanterne intense abbastanza da sfrondare il piovasco d'autunno e, poco dopo, riconobbero quel vascello che tagliava acque perfettamente distese nel buio. 
I due naufraghi si imbarcarono, presero posto giù in fondo e poterono udire le porte del 796 dispiegarsi fino a chiusura completa.
Anna adagiò il capo sulla spalla di lui, le mani dei due si intrecciavano gioconde e voluttuose mentre Stefano osservava la luce della città sfavillare tra le gocce aggrappate ai vetri del bus.
Egli sospirò e socchiuse le palpebre, ipnotizzato dall'incedere del temporale. 
Un istante. 
Uno.

Il sole alto, gocce macchiate sui vetri e, sul sedile, non altro che vuoto.


sabato 29 settembre 2012

Il mio tesssoro.



 

Ho sbagliato tutto nella vita, era questo il mio sogno.
(Mia sorella dice che io non riuscirei a farne funzionare neanche 2 di fila)

martedì 25 settembre 2012

Parola di Giovanni




"Tra un mese andremo a Roma a festeggiare la Pasqua con la zia Carmelina!", disse mio padre con un brillìo di voce nel bel mezzo di un glorioso piatto di pasta alla norma.
Era il 28 febbraio del 1986 quando risuonò nell'aere la proposta di viaggio, la prima per me.
Non sapevo neanche chi fosse questa acclamata parente dal nome geograficamente localizzato, ma subito pensai: " ecchissenefrega?!?"
A dire il vero, il senso dello spostamento scorreva già da tempo nelle vene di  questo mio desiderato corpo: padre e madre, infatti, sin dagli albori della  mia vitalità solevano sorvolare lo stivale da sud a nord e viceversa, per via della temporanea residenza lontana dalle coste di Sicilia.
Fino ad allora, tuttavia, si era trattato di partenze necessarie; quel giorno, a tavola, invece, si parlò di un viaggio bello e buono, mica bau bau!
Per completezza d'informazione, ammetto che, istantaneamente, non realizzai il significato della proposta nella sua astratta complessità per due ordini di ragioni: in primo luogo, durante il pranzo ero, come spesso accadeva (accade), intento ad escogitare ed eseguire allegramente piani militari di snervamento della mini Super Sorella (S.S.); in secondo luogo, nella mia giovane ed esuberante mente dedita ai crimini contro la sorellità, non si delineò, con immediatezza, il presagio di Roma, quindi dell'evento dell'anno.

E così arrivò, tra stress e preparativi, il famigerato 27 marzo: una Peugeot 304 trionfava ruggente dinanzi al portone di casa, pronta ad affrontare 800 Km con destinazione "città eterna"; espressione, quest'ultima, che colsi pienamente solo dopo aver goduto dei comfort della Salerno-Reggio Calabria.
Ma non perdiamoci in sterili polemiche. 
Il nostro soggiorno sarebbe durato 6 giorni All Inclusive. Noi, tuttavia, con saggezza e prudenza, ci equipaggiammo per affrontare qualsivoglia forma di carestia, disastro, epidemia che si fosse, eventualmente, abbattuta sul pianeta terra. 
Avremmo potuto sopravvivere, infatti, in quell'ammezzato su 4 ruote, fino a 5 anni, forse anche 6 riducendo le razioni di cibo e medicine.

Il viaggio fu, nei miei occhi, il verdissimo silenzio dell'Aspromonte, la simpatia sgargiante degli autogrill, gli sfizi concessi da mio padre, la mappa che studiavo in qualità di co-pilota (sul sedile posteriore), l'ansia di mia madre per la velocità e il tifo per l'eroe al volante, il più veloce di tutti, l'invincibile.

Dopo circa 8 ore di viaggio e di profonda sorpresa per l'impegno profuso dallo Stato per la modernizzazione delle vie di comunicazione, il Comandante comunicò ai passeggeri della navetta nutrizionale che si era giunti alle porte di Roma. 
In quel momento mi appiccicai al finestrino ad osservare la campagna romana, impegnato, com'ero, a fiondare lo sguardo lontano, il più possibile, alla ricerca del primo segno della capitale e dell'impero.
Avevo 8 anni e non sapevo neanche cosa cercare. Non ricordo il motivo preciso, ma la sensazione che conservo è di infiniti attimi di adrenalina, quasi mi aspettassi l'arrivo di Marco Aurelio a cavallo o la visione di templi visti solo sui libri.


Roma fu un respiro lunghissimo, tra lettere e meraviglie.



Nel lasciare la città, la mattina di quel 3 aprile restai, per parecchi chilometri, immobile. Sul sedile posteriore, in ginocchio, con la faccia tra le mani, affacciato verso il retro di quel sogno che lentamente svaniva.



domenica 23 settembre 2012

Parola di Giovanni.


http://grooveshark.com/s/7/4jlQlS?src=5


Correva l'anno 2006, una estate parecchio movimentata, piena di passato, ma con un bel terrazzo con vista casini ad allietare le mie pochissime ore di solitudine. 
A metà agosto, in un caldo pomeriggio di Sicilia, la mia super sorella (S.S.) mi propose di andare a Taormina, per un concerto che si sarebbe tenuto di lì a qualche giorno al Teatro Greco della rinomata località turistica. 
Su una gitarella a Taormina non c'erano dubbi, ovviamente; una notte al Teatro Greco per un evento musicale, era un'offerta che non si poteva rifiutare; una serata con la S.S., è sempre, per diritto naturale, divertente in quanto tale. 
Quel che mi perplimeva, per dirla con Corrado Guzzanti, era l'identità dell'artista che si sarebbe esibito: Francesco De Gregori.
Non conoscevo nulla del suo repertorio a parte "la Donna Cannone" e "Buonanotte Fiorellino"; non avevo idea del genere musicale a cui andavo incontro, né del percorso artistico alle spalle del cantante romano. Niente, nulla, nisba, nada. Anzi, per dirla tutta, avevo collocato De Gregori tra i primi 10 cantautori-lagna-tristezza italiani; non sul podio, ma un buon piazzamento; dunque nulla che mi spingesse ad un suo concerto.
Date le premesse, accettai immediatamente (...), anche perché le proposte della S.S. non si discutono, ci si tuffa di testa!
Fu un concerto stupendo, coinvolgente, delicato. 

De Gregori era ormai roba mia, pensai.





martedì 18 settembre 2012

La ragazza.




 "...Se potessi tornare indietro, indietro io ci tornerei
Se potessi cominciare daccapo, quello che ho fatto non lo rifarei..."

venerdì 14 settembre 2012

La scelta che non c'era.


Contea di Acireale - Regno di Sicilia, 10 settembre 1812.

Erano quasi le 7 della sera e Don Fabrizio, a bordo della propria motocarrozza, percorreva, assorto in pensieri d'immaginata azione, i sentieri litoranei della costa orientale del Regno di Sicilia.
Egli era solito fare lunghe e meditate passeggiate alla ricerca di uno spunto di soluzione o di una foce alle proprie ansie.
Quel giorno, si era posta in primo piano una grave questione da risolvere, l'annoso problema che affliggeva da anni il suo Regno. 
C'era da fare una scelta e il Principe sapeva che, se avesse optato per la decisione più giusta e onesta, lo sforzo conseguentemente profuso non avrebbe comunque condotto al risultato sperato; ecco il tarlo, l'insensatezza, il senso di impotenza.
Eppure Fabrizio non trovava pace, qualcosa non tornava.


Il nostro eroe, intanto, si era fermato e aveva lasciato la motocarrozza nei pressi di un antico borgo della contea di Acireale. Erano passate le 7,00 e il sole brillava a pochi centimetri dalla linea dell'orizzonte: era questo il momento del giorno in cui si potevano ammirare i colori più intensi del castello e le rocce affacciate sul mare, ancora accese e ancora lente per la lava e per i lustri dei Borboni.



Don Fabrizio s'abbigliava, per i suoi viaggi, in un modo inusuale per un regnante; ciò al fine, ma non solo, di poter godere indisturbato del profumo del tramonto.
Fabrizio poteva, inoltre, osservare, svincolato dai tappeti rossi e dalle insegne reali, il paese vivente, quello vero, nell'ordinario scorrere delle esistenze più lontane dagli affari della Corona.

La piazza del Castello si presentava, in quella sera di fine estate, popolata, per lo più, da famiglie benestanti, da borghesi impettiti, appassionati in chiacchiere eversive o di vilipendio, e da eleganti donne di grazia ricamate, dallo sguardo misterioso per lo scudo di bianchi ombrelli da passeggio.
Il Principe s'appoggiò solitario sulla ringhiera a pochi metri dal vecchio castello diroccato e rivolse lo sguardo all'aiuola al centro della piazza: vi erano bambini intenti a rincorrersi, lotte con bastoni e corde che volteggiavano rapide. Il gioco era l'impegno e il motivo, dunque non era, in realtà, "gioco" se non per gli spettatori. 
Ridevano gli occhi  di Fabrizio, immersi in quelle epiche battaglie senza fine e nei dialoghi tra piccoli Angioini e Aragonesi, tutti eccitati dalla vittoria o dalla voglia di primeggiare, consci della propria forza o disperati per un sopruso subito.
Ad un tratto, però, l'attenzione di Don Fabrizio fu rapita da due ragazzini che correvano in bicicletta attorno al giardino: il Principe vi si avvicinò lentamente e individuò due piccoli ciclisti che gareggiavano su una pista idealmente tracciata sul perimetro esterno del giardinetto. Una gara senza limiti, senza regole e, soprattutto, senza traguardo.
Il primo bambino aveva circa 10 anni, o poco più, e circumnavigava l'isola verde sicuro e spavaldo mentre l'altro concorrente era un "coso", alto appena un metro e un arancino, che scorrazzava su una mini-mini bicicletta bianca con una striscia rossa sopra alla ruota posteriore; il più grande spingeva potente sui pedali e, forte della propria superiorità fisica, si trovava, a cavallo di una certa spocchia, in testa alla strana competizione che stava avendo luogo nell'indifferenza generale. 
Il più piccolo, tuttavia, non si scoraggiava. Neanche per un secondo. Si impegnava e si impegnava, in uno eroico sforzo che non conosceva ostacolo.
Fabrizio decise, incuriosito, di raggiungere l'aiuola attorno a cui sfrecciavano i due giovani atleti e, così, poté notare che il più grande dei due bambini, ad ogni doppiaggio del rivale, non riusciva a frenarsi dal prendersene beffa e dal deriderlo: "Sei ultimissimo!!! Non mi prenderai mai! Schiappa!" ...e via di seguito.
Il piccolo inseguitore, un bimbo di carnagione chiara e corporatura snella, indossava un caschetto che copriva la chioma castana, ma che cadeva ripetutamente in avanti a quegli occhi tutti presi dalla corsa. 
Fabrizio fu subito sorpreso dalla tenacia del più giovane dei due contendenti che con le sue piccole gambette pedalava con tutte le energie, anche quelle che non aveva, subiva senza mai replicare umiliazioni e, quel che più contava, non perdeva mai la fiducia nella capacità di raggiungere la vittoria. Mai.
Il principe, per quanto in incognito, non riuscì a trattenere il sorriso quando fu abbastanza vicino per ascoltare il piccolo combattente mai sconfitto:
"Cooofa poffo fare?" 
"C o f a   p o f f o  f a r e ?!?" ... accorato.
e poi più forte "COOOOFA POFFO FARE?!?".
Quando il percorso di gara presentava delle salite più aspre, il piccolo non demordeva, si alzava sui pedali e, a fatica, ripeteva: "co-fa  po-ffo fa-re?".
Il Principe notò, poco dopo, con sommo dispiacere e con un filo di rabbia, che il ciclista alla testa della corsa "accorciava" il percorso di gara "tagliando" i giardini che costituivano il nucleo attorno a cui era previsto si girasse.



Fabrizio, di lì a poco, rientrò nelle tenute estive, fiero del carisma e della tenerezza del piccolo uomo, ammirato dall'estasi e dal misticismo di uno sforzo senza gratificazione.


Quella sera, il Principe non smetteva di ripetere, ebbro di quella esperienza, "cofa poffo fare?!?".
Tutti i presenti dubitarono del suo stato di salute mentale, ma lui era il Principe e nessuno avrebbe osato mancargli di rispetto. 
Fabrizio si addormentò col sorriso del piccolo Giovanni che esultava per aver raggiunto e superato il suo  rivale il quale, come un minchione, fece un volo di 4 metri per aver sbagliato strada proprio all'ennesimo atto di imbrogliare la lealtà del piccolo cugino.
I dubbi di Don Fabrizio erano solo un lontano ricordo.



giovedì 13 settembre 2012

That September




Attese



mercoledì 12 settembre 2012

La follia



domenica 9 settembre 2012

Amici sconsiderati





sabato 8 settembre 2012

So fuckin’ special





"...You’re so fuckin’ special
I wish I was special
But I’m a creep, I’m a weirdo.
What the hell am I doing here?
I don’t belong here.."

domenica 2 settembre 2012

Imprese settembrine





I primi di settembre assumevano puntualmente, nella mia infanzia (probabilmente un po' per tutti), le sembianze della malinconia, l'odore di terra bagnata, il profumo di carta, gli entusiasmi da diario nuovo ed essenze di petrolio. 
Erano giorni biblicamente "ultimi"... ma anche consapevoli momenti di autogestione prima dell'inizio della scuola. 
Si consumavano lunghe e rilassate merende; si susseguivano pomeriggi giocati al caldo di generosi scampoli d'estate; scivolavano corse su spiagge semideserte tra ombrelloni tristi e vacanze finite; erano giorni senza nome.
Adesso non ho più matite colorate per assolare i pensieri uggiosi, nonostante carta e legno mi accompagnino ancora nel mio viaggio; i giorni di questa vita non sono più obbligati, ma di schiacciante responsabilità, di libertà comprata a buon prezzo e di ordinato scorrere.

Ogni tanto, tuttavia, tornano alla mente vecchi primi settembrini.
Era un senso di grigio per via di quei temporali di fine estate quando la rena s'intiepidiva molle e spianata, tra onde lunghe e distese. 
Con Danilo e Francesco, come guerrieri valorosi, facevamo la conta delle ferite riportate per i funambolici tuffi sul bagnasciuga nel tentativo di correre più veloce del mare. 
Si faceva, ricordo, ad ogni istante, più grosso, con un inconfondibile sapore d'autunno. Non smettevamo di sfidarlo e di volare.
Toccavamo l'apice della felicità con l'azzurro negli occhi e l'appagante disobbedienza alle migliori raccomandazioni. 
La sera non si lesinavano rimproveri, febbre ed escoriazioni, ma era il tempo nostro. 
Un tempo vivo, senza forma né istruzioni.   


sabato 1 settembre 2012

Una Mucca




Vi prego di non pensare neanche per un momento che si tratti di una gag.


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