venerdì 14 settembre 2012

La scelta che non c'era.


Contea di Acireale - Regno di Sicilia, 10 settembre 1812.

Erano quasi le 7 della sera e Don Fabrizio, a bordo della propria motocarrozza, percorreva, assorto in pensieri d'immaginata azione, i sentieri litoranei della costa orientale del Regno di Sicilia.
Egli era solito fare lunghe e meditate passeggiate alla ricerca di uno spunto di soluzione o di una foce alle proprie ansie.
Quel giorno, si era posta in primo piano una grave questione da risolvere, l'annoso problema che affliggeva da anni il suo Regno. 
C'era da fare una scelta e il Principe sapeva che, se avesse optato per la decisione più giusta e onesta, lo sforzo conseguentemente profuso non avrebbe comunque condotto al risultato sperato; ecco il tarlo, l'insensatezza, il senso di impotenza.
Eppure Fabrizio non trovava pace, qualcosa non tornava.


Il nostro eroe, intanto, si era fermato e aveva lasciato la motocarrozza nei pressi di un antico borgo della contea di Acireale. Erano passate le 7,00 e il sole brillava a pochi centimetri dalla linea dell'orizzonte: era questo il momento del giorno in cui si potevano ammirare i colori più intensi del castello e le rocce affacciate sul mare, ancora accese e ancora lente per la lava e per i lustri dei Borboni.



Don Fabrizio s'abbigliava, per i suoi viaggi, in un modo inusuale per un regnante; ciò al fine, ma non solo, di poter godere indisturbato del profumo del tramonto.
Fabrizio poteva, inoltre, osservare, svincolato dai tappeti rossi e dalle insegne reali, il paese vivente, quello vero, nell'ordinario scorrere delle esistenze più lontane dagli affari della Corona.

La piazza del Castello si presentava, in quella sera di fine estate, popolata, per lo più, da famiglie benestanti, da borghesi impettiti, appassionati in chiacchiere eversive o di vilipendio, e da eleganti donne di grazia ricamate, dallo sguardo misterioso per lo scudo di bianchi ombrelli da passeggio.
Il Principe s'appoggiò solitario sulla ringhiera a pochi metri dal vecchio castello diroccato e rivolse lo sguardo all'aiuola al centro della piazza: vi erano bambini intenti a rincorrersi, lotte con bastoni e corde che volteggiavano rapide. Il gioco era l'impegno e il motivo, dunque non era, in realtà, "gioco" se non per gli spettatori. 
Ridevano gli occhi  di Fabrizio, immersi in quelle epiche battaglie senza fine e nei dialoghi tra piccoli Angioini e Aragonesi, tutti eccitati dalla vittoria o dalla voglia di primeggiare, consci della propria forza o disperati per un sopruso subito.
Ad un tratto, però, l'attenzione di Don Fabrizio fu rapita da due ragazzini che correvano in bicicletta attorno al giardino: il Principe vi si avvicinò lentamente e individuò due piccoli ciclisti che gareggiavano su una pista idealmente tracciata sul perimetro esterno del giardinetto. Una gara senza limiti, senza regole e, soprattutto, senza traguardo.
Il primo bambino aveva circa 10 anni, o poco più, e circumnavigava l'isola verde sicuro e spavaldo mentre l'altro concorrente era un "coso", alto appena un metro e un arancino, che scorrazzava su una mini-mini bicicletta bianca con una striscia rossa sopra alla ruota posteriore; il più grande spingeva potente sui pedali e, forte della propria superiorità fisica, si trovava, a cavallo di una certa spocchia, in testa alla strana competizione che stava avendo luogo nell'indifferenza generale. 
Il più piccolo, tuttavia, non si scoraggiava. Neanche per un secondo. Si impegnava e si impegnava, in uno eroico sforzo che non conosceva ostacolo.
Fabrizio decise, incuriosito, di raggiungere l'aiuola attorno a cui sfrecciavano i due giovani atleti e, così, poté notare che il più grande dei due bambini, ad ogni doppiaggio del rivale, non riusciva a frenarsi dal prendersene beffa e dal deriderlo: "Sei ultimissimo!!! Non mi prenderai mai! Schiappa!" ...e via di seguito.
Il piccolo inseguitore, un bimbo di carnagione chiara e corporatura snella, indossava un caschetto che copriva la chioma castana, ma che cadeva ripetutamente in avanti a quegli occhi tutti presi dalla corsa. 
Fabrizio fu subito sorpreso dalla tenacia del più giovane dei due contendenti che con le sue piccole gambette pedalava con tutte le energie, anche quelle che non aveva, subiva senza mai replicare umiliazioni e, quel che più contava, non perdeva mai la fiducia nella capacità di raggiungere la vittoria. Mai.
Il principe, per quanto in incognito, non riuscì a trattenere il sorriso quando fu abbastanza vicino per ascoltare il piccolo combattente mai sconfitto:
"Cooofa poffo fare?" 
"C o f a   p o f f o  f a r e ?!?" ... accorato.
e poi più forte "COOOOFA POFFO FARE?!?".
Quando il percorso di gara presentava delle salite più aspre, il piccolo non demordeva, si alzava sui pedali e, a fatica, ripeteva: "co-fa  po-ffo fa-re?".
Il Principe notò, poco dopo, con sommo dispiacere e con un filo di rabbia, che il ciclista alla testa della corsa "accorciava" il percorso di gara "tagliando" i giardini che costituivano il nucleo attorno a cui era previsto si girasse.



Fabrizio, di lì a poco, rientrò nelle tenute estive, fiero del carisma e della tenerezza del piccolo uomo, ammirato dall'estasi e dal misticismo di uno sforzo senza gratificazione.


Quella sera, il Principe non smetteva di ripetere, ebbro di quella esperienza, "cofa poffo fare?!?".
Tutti i presenti dubitarono del suo stato di salute mentale, ma lui era il Principe e nessuno avrebbe osato mancargli di rispetto. 
Fabrizio si addormentò col sorriso del piccolo Giovanni che esultava per aver raggiunto e superato il suo  rivale il quale, come un minchione, fece un volo di 4 metri per aver sbagliato strada proprio all'ennesimo atto di imbrogliare la lealtà del piccolo cugino.
I dubbi di Don Fabrizio erano solo un lontano ricordo.



4 commenti:

Jane (Pancrazia) Cole ha detto...

Più lo leggo e più mi piace. Le sfumature, la scelta dei vocaboli, il parallelismo: bravo!

Farnetico ha detto...

grazie Jane, grazie.

Anonimo ha detto...

Mi ha emozionato molto questa "favola"... Mi ha a tratti divertita e pure commossa! L'immagine così tenera del piccolo ma testardo Giovanni che vince, se non la guerra, almeno la sua battaglia. E poi il cugino, il minchione che si prendeva gioco di lui. Il suo "barare" l'ha portato solo a farsi male, ma... avrà imparato la lezione? Beh, questa è un'altra storia...

Farnetico ha detto...

Caro Anonimo, in attesa che tu possa tornare a farci visita (e manifestarti), ti ringrazio di cuore, veramente.
A presto.

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